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venerdì 28 settembre 2012

Neanche un euro su Mirafiori

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L’ad del Lingotto abbassa i toni ma non cambia la sostanza. Fino al 2014 in Italia non si produrrà nulla di nuovo. E aggiunge: senza Chrysler passeremmo le pene dell’inferno. Da Parigi Sergio Marchionne conferma che per l’Italia non sono previsti investimenti. Faccia a faccia col patron di Mazda, alla ricerca del partner «globale»
Tagliati barba e 20 miliardi di investimenti, Sergio Marchionne si presenta più leggero al Salone dell’auto di Parigi. Basta veleni con Diego Della Valle incrociando scarpe e parafanghi, basta insulti a imprecisati giornalisti sul libro paga della Volkswagen che gli vorrebbero far vendere l’Alfa Romeo, basta accuse perfino alla Fiom, che «non c’entra nulla» con la decisione di cancellare il suo piano Fabbrica Italia. Lasciato cadere per colpa dei mercati a picco e anche un po’ per la troppa insistenza della Consob («ho ricevuto 19 lettere, la ventesima non l’avrei più letta») nel voler sapere che cosa Fiat avrebbe davvero prodotto nelle fabbriche italiane. «Fabbrica Italia era morta strutturalmente un anno fa», amen.
L’a.d. di Fiat-Chrysler ribadisce che non prevede di investire più un euro in Italia almeno fino al 2014 – «al momento idoneo» concordato sulla carta con il governo Monti, ma non con il mondo del lavoro né con quello dei mercati – e che non chiederà aiuti pubblici non solo al governo italiano ma (questa è una novità) nemmeno a quello della Ue, cui si era rivolto perché desse una mano all’industria dell’auto per ristrutturarsi sul modello di quanto fatto con la siderurgia negli anni ’80. Una ritirata strategica, dopo aver sentito a margine del Salone il suo omologo del gruppo Volkswagen, Martin Winterkorn: «Ci sono stati aiuti da parte dei governi per mantenere le fabbriche aperte, dunque non capisco perché dovremmo chiedere aiuti per tagliare posti di lavoro. Non dovremmo neppure discutere se chiedere soldi a Bruxelles per chiudere fabbriche».
Sugli investimenti mancati, Marchionne è ancora più esplicito, quando gli viene domandato del congelamento del miliardo promesso a Mirafiori per costruire due Suv: «Non ho ancora messo il miliardo. Stiamo valutando la situazione dei modelli. Voglio essere libero di decidere il portafoglio prodotti». E fa un passo avanti, anzi due indietro, quando chiarisce cosa intende per «ripensamento del modello di business» di Fiat in Italia, dove le fabbriche per non chiudere dovrebbero essere dedicate all’export di auto Fiat, Chrysler e Jeep verso il Nordamerica, nonostante il cambio con il dollaro sia sconveniente (per noi, ha sottolineato). Anche questa è solo un’intenzione, non un nuovo impegno tipo Fabbrica America: «nei prossimi 18/24 mesi» si vedrà se i siti statunitensi andranno a saturazione e dunque se sarà necessario importare dall’Italia.
Insomma, fino al 2014 nelle fabbriche italiane non si produrrà nulla (o cosa?), né per i mercati europei in crisi, né per quello nordamericano. E se fra due anni andasse in crisi anche quello, beh la colpa non sarebbe certo sua. Nel frattempo, spiega Marchionne, sarà bene che il governo Monti si dia da fare per snellire procedure e trovare incentivi fiscali per l’export. Lui però non chiede soldi, insiste: «Ho chiesto a tutti soltanto pazienza». Virtù che gli operai degli stabilimenti italiani faticheranno sempre di più a trovare, condannati alla cassa integrazione per almeno altri due anni. O, se va bene, a quella in deroga che la Fiat non ha chiesto, perché oggi non l’avrebbe ottenuta. Forse domani, forse con un Monti-bis che il manager sogna e per cui prega («Mario diventerà un nome santo», riferendosi al premier e anche a Draghi).
Benché stuzzicato da un collega sulle «imboscate della Fiom», Marchionne si limita a rispondere che «sarebbe una bugia se dicessi che non ci condiziona nelle scelte», ma aspetta senza scaldarsi l’appello della sentenza di un tribunale di Roma (in ottobre), che accusa la Fiat di «discriminazione» per non avere assunto a Pomigliano operai iscritti al sindacato dei metalmeccanici della Cgil. Del resto, anche lui ha deciso di comportarsi come la Fiom, facendo causa in America al Veba, il fondo del sindacato dei metalmeccanici Uaw, per disaccordo sul valore della cessione di una quota del 3,3% di Chrysler in mano ai lavoratori.
Problema non da poco per Marchionne, perché il Veba ha il restante 40% del marchio e potrebbe provare ad alzare ulteriormente il prezzo nella prossima trattativa. Già che c’è, aggiunge che comunque oggi la Fiat senza la Chrysler passerebbe «le pene dell’inferno». Per il resto, conferma di cercare un terzo partner, asiatico sarebbe l’ideale: ieri pomeriggio era previsto un riservato faccia a faccia con il presidente della Mazda Takashi Yamanouchi, per provare ad andare oltre l’intesa sulla produzione comune di spider Mazda e Alfa Romeo dal 2015.
Tornando a cose italiane, il manager chiude pepato verso la Confindustria da cui ha portato fuori la Fiat, «non ci manca quel rito», «abbiamo obiettivi fondamentalmente diversi». Ma qui potrebbe avere forse anche ragione; tanto più che nemmeno al presidente Giorgio Squinzi sembra proprio mancare questa Fiat.

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