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mercoledì 24 luglio 2013

La sentenza della Consulta che può riportare la democrazia in fabbrica

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“Nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività” e “si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione”. La Consulta motiva con queste chiarissime parole il giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, dello Statuto dei lavoratori. L’art. 2 della Costituzione garantisce “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali”; l’art. 3 tutela l’uguaglianza dei cittadini; l’art. 39 la libertà di organizzazione sindacale. Se soltanto chi firma un contratto è abilitato all’esercizio dei diritti sindacali in quel sito è del tutto evidente che ne saranno premiati i sindacati più proni, o addirittura corrivi, o complici della volontà datoriale. Non è dunque dalla sottoscrizione di un accordo che si può evincere la rappresentatività di un sindacato. La violazione del principio di uguaglianza rilevata dalla Consulta sta nel fatto che i sindacati, “nell’esercizio della loro funzione di autotutela dell’interesse collettivo, sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del loro rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa”. Ma c’è di più, perché la Corte parla, se possibile ancor più chiaramente, di una “forma impropria di sanzione del dissenso”, in violazione dell’articolo 39 della Costituzione “che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati, mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ‘ad excludendum’”.
Quanto alla individuazione di un criterio selettivo cogente ed effettivamente democratico attraverso cui verificare la rappresentatività sindacale ai fini della tutela privilegiata di cui al titolo Terzo dello Statuto dei lavoratori la Corte ritiene si possa dare efficace risposta con “una molteplicità di soluzioni”, tra cui la “valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti”, l’”introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento”, “l’attribuzione al requisito previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva vigente”, oppure il “riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro”. L’opzione “tra queste od altre soluzioni”, conclude la Corte, “compete al legislatore”.
C’è, invero, anche un altro criterio, certamente il più democratico, quello rivendicato dalla Fiom e sostenuto da 100mila firme consegnate al Parlamento, con cui si prevede che ogni accordo, a qualsiasi livello stipulato, per produrre i suoi effetti debba essere approvato, con voto segreto, da tutti i lavoratori che vi sono interessati.
In ogni caso, tocca ora al Parlamento riempire il vuoto legislativo che la sentenza della Corte apre. In questo senso si è pronunciata l’Usb, che con Fabrizio Tomaselli rivendica “la necessità assoluta di una legge sui diritti delle lavoratrici e dei lavoratori sui posti di lavoro e sulla rappresentanza sindacale. Non serve una legge qualunque, serve immediatamente una legge che riporti democrazia e libertà nel mondo del lavoro contro il monopolio di Cgil, Cisl e Uil e le discriminazioni delle aziende che sino ad oggi continuano a scegliere i propri interlocutori sindacali per sottoscrivere accordi e contratti sempre peggiori per i lavoratori.
Serve una legge che riporti in primo piano non gli interessi dei sindacati che “collaborano”, ma i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che devono e possono esprimersi liberamente e decidere da chi essere rappresentati sindacalmente”. Sul tema interviene anche Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, che così commenta la sentenza: “Marchionne e la dirigenza della Fiat hanno perso, grazie all’impegno e alla determinazione della Fiom e di tanti lavoratori che non si sono piegati all’arroganza dell’Amministratore delegato. La cosa vergognosa è che subito Marchionne &c. si sono premurati di ricattare i lavoratori e il Paese, annunciando di voler “valutare in che misura il nuovo criterio di rappresentatività potrà modificare l’assetto delle proprie relazioni sindacali e le sue strategie industriali”. “Il governo deve intervenire – conclude il segretario del Prc – Marchionne non può fare il bello e il cattivo tempo”.

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