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sabato 15 settembre 2012

Il fiscal compact cancella la sinistra

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Qualunque sarà la maggioranza di governo, si dovrà tagliare il bilancio di un 3%, circa 48 miliardi di euro ai valori attuali. Ma allora come è possibile, permanendo questi vincoli economici, una politica anticiclica che ci porti fuori dalla crisi senza un massacro sociale?
Desta stupore la rimozione del tema del fiscal compact, e delle conseguenze che ne derivano, dal dibattito sulle scelte elettorali della sinistra italiana. Naturalmente se ne parla in convegni economici, da ultimo quello di Sbilanciamoci. Ma quando entrano in scena gli attori politici scende il silenzio.
Non credo si tratti solo del tradizionale provincialismo che affligge la politica nel nostro paese, per cui tutti si dichiarano europeisti e poi se ne scordano quando le elezioni si avvicinano. Né che siamo soltanto di fronte alla deleteria separazione della cultura economica dalla politica che è all’origine della tecnicizzazione della prima e dello svuotamento della seconda. Qui c’è qualcosa in più e di più grave.
Vi è l’introiezione più o meno confusamente consapevole, ma fortemente condizionante, che in fondo non c’è null’altro da fare; che i vincoli posti dalle élites economico finanziarie europee sono ineludibili, almeno nei tempi programmabili; che la reazione dei mercati al solo annuncio di deviare da questi sarebbe mortale; che dunque, nel migliore dei casi, si tratterebbe di ritagliarsi un piccolo spazio di manovra al loro interno. Il tutto connesso con la speranza o di aggiustare qualcosa, all’italiana, mettendosi d’accordo con la Commissione europea, fingendo di dimenticare la sua composizione, i suoi precedenti e soprattutto il fatto che il mancato rispetto delle norme di rientro dal deficit e dal debito prevedono nel nuovo trattato immediate sanzioni automatiche. Oppure cercando di convincersi che il nuovo patto è talmente brutto e rigido per essere applicato, dimenticando che la storia del novecento – per fermarsi lì – ha visto implementati con assoluta inflessibilità, oltre che declamati, norme e propositi ben peggiori, con immani tragedie per le popolazioni europee.
In sostanza assistiamo a uno sfondamento nel campo della sinistra, compreso ovviamente quella che si colloca alla sinistra del Pd, di un ricostruito pensiero unico che nel fiscal compact trova il perno di una nuova soffocante governance europea.
Eppure le prove in negativo degli effetti micidiali di queste norme già sono noti. Basti pensare alla vicenda dei socialisti francesi. La loro vittoria, costruita sulla base di un programma certamente di sinistra, anche se moderata, incalzati peraltro da un ben più radicale Front de Gauche, aveva aperto speranze in tutto il continente e di per sé non aveva suscitato la tanto temuta reazione vendicativa dei mercati finanziari. Da quando Hollande ha dichiarato, pur non mettendolo in Costituzione (cosa non obbligata dal nuovo trattato, che la ritiene misura solo preferibile) di fare approvare dal parlamento il fiscal compact, l’intero suo programma di riforme sociali interne ha subito uno stop ed è cominciata a declinare la fiducia dei francesi che lo avevano votato nel nome di una rinascita della sinistra.
Nel caso italiano stiamo assai peggio. Per eccesso di zelo si è proceduto alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, con un Pd protagonista anche nel rifiutare l’appello che diversi tra noi gli inviammo affinché non i raggiungesse la maggioranza dei due terzi che impedisce il referendum. In virtù del fiscal compact ci aspettano venti anni nei quali, qualunque sarà la maggioranza di governo, si dovrà tagliare il bilancio di un 3%, circa 48 miliardi di euro ai valori attuali. Keynes è stato cacciato dalla legislazione di bilancio e dalla Costituzione.
Il tema, prima e di più che non quello delle alleanze, è quindi il seguente: come è possibile, permanendo questi vincoli, condurre una politica economica anticiclica che si prefigga di uscire dalla crisi senza un massacro sociale? Basta dare uno sguardo ai dati della recessione italiana, al crollo della produzioni industriali, al dilagare della disoccupazione e del precariato, alla sistematica distruzione delle conoscenze e delle intelligenze, al deperire della vita democratica e civile, per capire che non si tratta nei prossimi mesi e anni semplicemente di spostare qualche cifra entro un quadro ferreo già dato di riduzione complessiva della spesa, ma che al contrario sono i saldi complessivi che vanno modificati. Ci vuole più spesa intelligentemente e socialmente produttiva, non meno.
Né si può bypassare il problema semplicemente dicendo che bisogna fare più lotta all’evasione fiscale e introdurre una vera patrimoniale. Cose entrambe necessarie e urgenti, soprattutto la seconda. Ma una sinistra degna di questo nome dovrebbe sapere che non si tratta solo di ridistribuire quello che già c’è, soprattutto dentro la più grave crisi economica di tutti i tempi per quanto riguarda l’Europa, ma di creare una nuova ricchezza sociale, puntando alla piena occupazione e alla valorizzazione in tutti i sensi del lavoro in tutte le sue nuove forme e che tutto questo non lo si può fare se la preoccupazione principale nei prossimi venti anni è la riduzione a tappe forzate del debito.
Se poi, in virtù delle decisioni recentemente assunte dalla Bce – che sembrano fare egemonia anche tra i portatori di un pensiero solitamente critico – dovessero scattare le famose “condizionalità” a fronte di una richiesta di aiuti per l’acquisto dei nostri titoli di stato sul mercato secondario, la nuova governance europea darebbe un ulteriore giro di vite, rendendo praticamente inutile la competizione elettorale, dal momento che il corso della politica che verrà risulterebbe già minuziosamente tracciato.
Un vero centrosinistra può nascere solo se nel suo programma è ben chiara la necessità di una ridiscussione immediata del fiscal compact. Altrimenti non si può fare perché la sinistra non avrebbe voce. Né una simile questione può essere demandata all’esito delle primarie, poiché essa costituisce una delle linee essenziali che definiscono il perimetro della coalizione e dunque va risolta prima. A meno che non si pensi, come dice Matteo Orfini, in un’intervista al manifesto, che la modifica della legge elettorale porterà a primarie «per la premiership della lista unica». Ma questo significherebbe il definitivo abbandono del progetto della ricostruzione di una forza di sinistra autonoma nel nostro paese. Non solo quindi la sinistra dovrebbe evitare di andare in ordine sparso al confronto programmatico con il Pd – e la scelta di indire unitariamente il referendum per la restituzione dell’articolo 18 è un buon segnale, anche se avviene su un altro terreno -, ma anche mettere nel conto la possibilità di scelte autonome in campo elettorale, se la coalizione di centrosinistra si configurasse come una semplice articolazione delle politiche rigoriste rafforzate della Ue.

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