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giovedì 30 agosto 2012

La trasfusione che mio padre non doveva fare"

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Parla il figlio dell'uomo che denunciò la presenza di una strana buca nel suo terreno
Nel 2007 una Procura lucana ordinava di ispezionare un terreno. Scopo: trovare fusti di rifiuti tossici presumibilmente lì sepolti. Il figlio del proprietario di quel terreno ci ha raccontato fatti e antecedenti di quell’ispezione. E quella che oggi definisce una “sceneggiata”
A maggio del 2007 un sostituto procuratore della Repubblica firmava un “decreto di ispezione”. Era la probabile conseguenza d’un procedimento penale ancora aperto a carico di ignoti su un presunto seppellimento di fusti radioattivi in Basilicata. Nel decreto c’è scritto che “è necessario” procedere a un’ispezione di un terreno con l’ausilio di personale dell’Istituto nazionale di Geofisica di Roma. Ometteremo il paesino lucano dov’è il terreno e altri dettagli, per salvaguardare chi ha voluto farci questo racconto. L’ispezione doveva “verificare la probabile presenza nel sottosuolo” di fusti di rifiuti tossici. Per le indagini è delegata la Polizia giudiziaria della Squadra mobile.
La buca e gli strani movimenti di tir. Il racconto del nostro testimone è fatto di parole forti seguite ad anni di dubbi. Parole di un cittadino come tanti che oggi definisce una “messinscena” l’indagine vissuta direttamente nel 2007 sul presunto seppellimento di fusti tossici nel terreno del padre. E “non chiara” la morte del genitore. Ci mostra quel decreto d’ispezione. E con lui torniamo a tre anni prima che venisse emesso da una Procura lucana. Precisamente alla mattina del 15 novembre 2004. Il signor Gianni, chiameremo così il padre di chi ci ha raccontato questi fatti, esce di casa per andare alla sua vigna. E da tanto che non ci va. Sono anni ormai che non la frequenta più con la medesima assiduità. Poco prima che una brutta malattia, un linfoma, lo colpisse. Quando arriva nota un’enorme buca di 50 metri di diametro il cui materiale di risulta, preciserà nella denuncia, era stato “riposto ai margini della stessa”. Come se aspettasse d’essere ricoperta il prima possibile. Solo un mese dopo, il 14 dicembre, deciderà di sporgere formale denuncia ai Carabinieri del suo bel paesino nell’entroterra lucano. Lo fa perché prima di rivolgersi a loro cerca di capire in maniera bonaria, come era abituato per carattere, a risolvere la faccenda. Cerca di capire chi, e per quale strana ragione, avesse fatto quell’enorme buca nella sua terra. “Dopo averla trovata – racconta il figlio – mio padre s’allertò immediatamente”. E’ anche un po’ arrabbiato il signor Gianni. Pensa che a fare quel lavoro siano stati i proprietari di un’azienda adiacente al suo terreno. Senza chiedergli nulla hanno fatto come se fosse loro. Senza rispetto. Lì intorno, ricorda il figlio oggi, negli anni si sono comprati molti altri terreni. E fanno un po’ come se comandassero. Gente strana, in paese si sa che hanno relazioni con la malavita calabrese ed è meglio non averci a che fare. Il signor Gianni però, decide a quel punto di contattare i proprietari dell’azienda. “In un primo momento – prosegue il figlio – il padre dei proprietari disse che probabilmente erano stati i suoi ragazzi e avrebbe chiesto. Poco dopo quando lo rincontrò disse che  non ne sapevano nulla. Dopodiché mio padre sporse denuncia”. E precisa che “solo dopo la denuncia ai Carabinieri quello scavo fu trovato ricoperto”. “A quel punto – continua il nostro testimone–, mio padre s’attivò per capire cosa stesse succedendo e contattò anche un mandriano in zona, di cui non mi fece mai il nome, tenendo fede a una parola data, perché lo stesso per timore volle restare anonimo. L’uomo gli riferì che una notte aveva visto mezzi pesanti che effettuavano dei lavori per conto del gasdotto in costruzione lì vicino avviarsi verso il terreno di mio padre, e a un certo punto arrivarono due camion, uno giallo e uno bianco”.

Le indagini sulla "terra di nessuno". Anche se dal ’99 la procura di Potenza, e in particolare il sostituto Felicia Genovese, conduceva le indagini sul presunto traffico illecito di sostanze radioattive che sarebbe stato in essere negli anni ’80 nel Centro Enea di Rotondella, è solo nel 2003 che assieme al Sostituto procuratore Giuseppe Galante della Dda, interrogano in forma congiunta l’ex boss della ndrangheta Francesco Fonti. Da allora si può ipotizzare siano stati al corrente delle dichiarazioni in merito a presunti traffici e punti di seppellimento in Basilicata, nella regione che la ’ndrangheta, in un summit in Calabria, aveva definito “terra di nessuno”. Affermazioni che nel 2005 l’Espresso rese pubbliche attraverso il “memoriale Fonti”, dando inizio a quei sopralluoghi senza esito col pentito per trovare i fusti in Basilicata. Il signor Gianni aveva denunciato la buca nel suo terreno un anno dopo l’interrogatorio dei magistrati di Potenza al pentito, in quel dicembre del 2004, e pochi giorni dopo la denuncia aveva scoperto quegli strani movimenti notturni di camion lì intorno e che la ricopertura della buca. Ma è solo nel 2007, dopo 3 anni in cui la denuncia resta in un anonimo nulla, che viene emesso il decreto di ispezione da cui abbiamo iniziato questa storia.

La trasfusione che "non si doveva fare". Pochi mesi prima del decreto il signor Gianni era stato contattato dai medici del San Carlo. “Una cosa strana”, ricorda oggi il figlio, che si chiede perché quelle indagini vennero riprese solo dopo la morte del padre. “Di solito – afferma – eravamo sempre noi a chiamare per il controllo. Mio padre si recò per fare questa visita e decisero il ricovero perché secondo loro c’erano valori che non andavano. Dopo due giorni mi recai in ospedale di persona per chiedere come stesse. Mio padre mi disse che volevano somministrargli una sacca di sangue. Il primario precedente lo aveva sempre escluso perché per particolari fattori non poteva ricevere sangue. Cercai così di capire come mai in quella occasione volevano invece effettuare questa prassi prima sempre vietata, tanto che mio padre faceva delle cure molto particolari. Ma non mi fu data risposta. In ospedale rimase mia madre e la mia ex moglie. Il giorno seguente gli diedero questo sangue e la sera mio padre prima si gonfiò tutto, poi andò in coma e infine morì”. Ricorda anche che all’epoca la moglie aveva notato davanti la sala di rianimazione il nuovo primario “parlare sottovoce e in modo sospetto con un altro uomo”, e credendo che si riferissero al suocero s’avvicinò per chiedere spiegazioni sul perché fosse entrato in coma. Ma non gli furono date, e a quel punto, innervosita da questo comportamento, alzò la voce e venne minacciata dai due d’allontanamento. Solo tempo dopo riconobbe in tv quell’uomo che parlava col primario e l'aveva minacciata. "Era uno che contava al San Carlo di Potenza”. Il figlio del signor Gianni dice che di quella sacca di sangue nella cartella clinica non fu riportata né provenienza né autorizzazione a effettuare la trasfusione. Il tutto motivato dai medici con un’urgenza che i familiari, invece, proprio non vedevano.

Il sopralluogo "a metà". In quel 2007 comunque, solo dopo la morte del padre e a tre anni dalla denuncia della buca, il figlio di Gianni viene contattato dalla Polizia. Dissero che dovevano eseguire il sopralluogo sul terreno sospettato d’essere interessato al seppellimento di fusti di scorie provenienti da chissà dove. “Vennero per quel primo sopralluogo – racconta – nonostante insistetti che era inutile perché data la pioggia che s’era abbattuta non si poteva accedere. E diedero solo nell’occhio a tutti. Se quella era un’indagine da tenere segreta certo chi poteva essere direttamente interessato a mantenere anonima la cosa con quel comportamento era già allertato. Comunque sul posto non arrivammo mai. Dopo qualche giorno vidi il terreno di nuovo smosso. Allora chiamai subito il capo della Polizia che m’aveva contattato per il primo sopralluogo. Nonostante le mie insistenze su questo fatto strano, e che dovevano tornare subito per accertare cosa fosse accaduto, m’assicurò che era tutto sotto controllo della magistratura. Non mi sarei dovuto preoccupare. Passò poco tempo ancora e un giorno venni letteralmente prelevato, tanto che ero per strada e dovetti lasciare i miei figli a una persona lì vicino per andare sul sito con loro. Non capii perché visto che pochi giorni prima mi era stato comunicato che era tutto a posto. Ricordo che vennero con due macchine, non erano mezzi adatti e una si sfasciò per strada. Con loro c’era un geologo di Roma che perse parecchio tempo a fare rilievi sul terreno dove mio padre tre anni prima aveva trovato la buca, e lo strumento segnalò qualcosa che non mi fu mai specificato per segreto istruttorio. A un certo punto s’avvicinò il proprietario dell’azienda che stava vicino il terreno di mio padre e disse che là c’era solo un pagliaio e lamiere. A me sembrò uno che volesse mettersi sulle difensive. Quel pagliaio lo conoscevo sin da piccolo perché ci giocavo, da quando non era sepolto, ed escludo la presenza di materiali ferrosi. Il proprietario dell’azienda a quel punto si appartò con il capo della polizia nel suo capannone. E si trattennero parecchio. Quando uscì i ragazzi della polizia chiesero se dovevano continuare a cercare. Il terreno dove era stata fatta la buca appariva come rimosso da mezzi pesanti e sul posto era ancora presente la pala meccanica dei proprietari dell’azienda. Lo feci notare ma mi dissero che avrei potuto solo denunciare il signore che lì l’aveva lasciata. Io non lo ritenni opportuno, e dissi loro che non era quello il problema per cui stavamo là e mi sarei messo solo in guai peggiori”. Rispetto ai guai in cui si sarebbe cacciato sottolinea che lo zio del proprietario dell’azienda vicino i terreni del padre aveva ricoperto negli anni passati un importante incarico pubblico per il comune, ed era stato sposato con una donna proveniente dalla Calabria con precedenti penali e contatti con la malavita calabrese. “Il capo della Mobile – prosegue nel racconto del giorno dell’ispezione – a quel punto fece una telefonata alla pm che aveva emesso il decreto e poi ordinò ai suoi ragazzi di rientrare. Uno di essi si lamentò dicendo ʽma è questo il modo? Vogliamo dare una risposta al signore?’. Allora il capo mi chiese se ero contento di come avevano svolto le indagini e mi limitai a ribadirgli il mio dissenso. Da allora non ho più saputo nulla. Per questa storia coinvolgemmo l’allora assessore all’ambiente in Provincia. Ricordo che s’adoperò facendo fare sondaggi aerei e fotografie per rilevare se c’erano problemi. Ma anche in questo caso non ho più saputo nulla. So di certo però, che subito dopo si dimise”. Conclude con un interrogativo il figlio del signor Gianni, una domanda già sentita diverse volte in altri contesti lucani. “In questo paesino – conclude – c’è gente che s’ammala ogni giorno di cancro, nonostante viviamo in un posto dove l’aria è buona, non ci sono fabbriche e le macchine che circolano sono davvero scarse. Come è possibile?”.

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