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venerdì 4 maggio 2012

Articolo 18 - Nessun passo indietro!

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L'editoriale del nuovo di Falcemartello
I salari più bassi d’Europa: le retribuzioni rispetto all’aumento dell’inflazione non vanno così male dal 1983 (anno di inizio della ricostruzione delle serie storiche), ci illustra l’Istat.
Le pensioni più basse d’Europa: sempre l’Istituto di statistica ci racconta che due milioni e mezzo di anziani vivono con meno di 500 euro al mese. Altri quattro milioni non arrivano ai mille euro.

E fra poco, se la “riforma” del mercato del lavoro sarà approvata in parlamento, saremo tra i lavoratori con meno diritti d’Europa.
E non è finita… Infatti, se la primavera metereologica ha tardato così tanto ad arrivare, per l’economia l’inverno si prospetta ancora lunghissimo, soprattutto per quella europea.
La cura da cavallo che i governi dell’Ue stanno portando avanti sta riportando indietro di decenni il tenore e le condizioni di vita di milioni di lavoratori, anche negli altri paesi europei. In Grecia, secondo l’Ocse, le retribuzioni sono crollate del 25,5% in un anno. La disoccupazione si impenna: secondo le statistiche ufficiali, siamo al 15% in Portogallo e al 25% in Spagna.
Sono cifre da terremoto sociale. Certo, anche lassù dove si prendono le decisioni sulle nostre vite, alcuni temono che la disperazione e la rabbia crescano e che si tramutino in conflitti sociali, come già successo in Grecia, in Spagna e in Portogallo. Da qui nasce il grande dibattito: crescita o austerità? Il candidato socialista Hollande, la cui affermazione al primo turno riflette la voglia di cambiamento di tanti lavoratori francesi, cerca anche di interpretare le preoccupazioni di chi crede che se si continuerà a spremere la classe lavoratrice come un limone, un’esplosione sociale a livello europeo sarà inevitabile.
Ma sono voci minoritarie ed isolate: oltre alle roboanti dichiarazioni sul cambiamento di rotta, cosa c’è di concreto? Secondo alcune “indiscrezioni” riportate dal Sole24Ore (28 aprile) la Commissione europea avrebbe in mente un “piano Marshall” per il vecchio continente di ben 200 miliardi di euro. Sembra una cifra considerevole, ma a parte il fatto che non si sa bene dove trovare questi soldi, è ben poca cosa rispetto ai 7.700 miliardi di dollari elargiti da Obama nel corso della sua presidenza al sistema finanziario americano, o ai 2.600 miliardi regalati alle banche europee dalla Bce, sempre nello stesso periodo (La Stampa, 26 aprile).

La direzione di marcia non cambia: qualsiasi politica di investimenti pubblici nel prossimo periodo non avrà che un carattere cosmetico. Nessuna scelta di fondo da parte della borghesia francese o tedesca cambierà per quanto riguarda i lavoratori, che vinca Hollande o Sarkozy.
La crescita, lo ha chiarito bene Draghi, ci sarà continuando con la linea dell’austerità, e quindi tagliando la spesa pubblica. Che è un po’ come dire che ci si sazia rimanendo digiuni.
Su questo terreno il governo Monti vuole essere sempre il primo della classe. Sensibile ai cori di chi invoca, a destra dell’emiciclo parlamentare e non solo, la riduzione delle tasse, è deciso ad individuare altri quattro miliardi di tagli entro l’estate (prima tranche di un totale di 16 miliardi in tre anni), attraverso il meccanismo dello “spending review”. Ormai molti lavoratori sanno che quando governo e padroni cominciano a parlare inglese c’è da preoccuparsi. La “revisione della spesa” comporterebbe, secondo i “professori”, riduzioni alle uscite correnti e alle spese per i consumi. Il tutto, ci dicono, per evitare l’aumento dell’Iva al 23% ad ottobre. Sappiamo bene come è andata la politica dei due tempi dagli anni settanta ad oggi: i lavoratori hanno sempre fatto i sacrifici per primi, aspettando una redistribuzione delle risorse che non è mai arrivata. Siamo pronti a scommettere che sarà così anche questa volta.

Sulla strada di Monti, spianata da una larghissima maggioranza parlamentare e da un altrettanto ampio consenso da parte dei mass media, il 20 marzo, giorno della rottura tra Cgil e governo sull’articolo 18, si è prodotto un fatto nuovo: l’indicazione che il principale sindacato italiano avrebbe indetto un pacchetto di 16 ore di sciopero.
Questo annuncio ha aperto uno spazio attraverso il quale i lavoratori di questo paese hanno potuto esprimere tutta la loro rabbia e indignazione. Lo si è visto negli scioperi territoriali: in quello di Milano, organizzato come peggio non si poteva, dove la partecipazione massiccia dei lavoratori ha tuttavia costretto gli organizzatori a trasformare i quattro presidi previsti in partenza in un unico corteo o in quello di Modena, dove i lavoratori hanno occupato spontaneamente l’A1. Una rabbia che abbiamo riscontrato anche nella manifestazione degli esodati del 12 aprile e nello sciopero di otto ore dei lavoratori dell’agricoltura del 27 aprile, settore dove la liberalizzazione del voucher proposta da Fornero renderebbe legale ogni tipo di sopruso. Lo stesso giorno uno sciopero spontaneo ha fermato le Meccaniche di Mirafiori, con le maestranze esasperate dai ritmi troppo alti.
La direzione della Cgil subito ha cercato di chiudere il rubinetto delle mobilitazioni, accontentandosi di un accordo totalmente al ribasso con l’assicurazione che “presiederà” alla tutela dei diritti dei lavoratori, giocoforza tramite il Pd di Bersani. Stiamo freschi! In parlamento, se non ci saranno mobilitazioni decise da parte del movimento operaio, la controriforma Fornero non potrà che peggiorare.
L’unica posizione che si può difendere sulla riforma Fornero è quella di non cedere nemmeno un millimetro rispetto alla formulazione originaria dell’articolo 18, di non fare nemmeno un passo indietro.
È ora che lo sciopero generale sia convocato senza ulteriori indugi, è ora che chi ha detto di non accettare lo smantellamento dell’articolo 18, come Landini e la Fiom, traducano le parole in fatti, trascinando le altre categorie nello sviluppo di mobilitazioni generalizzate che facciano davvero male a lorsignori. Ora che la posta in gioco è decisiva, ora che i lavoratori italiani hanno chiarito la loro disponibilità alla lotta, non si può più tergiversare.
È sullo sviluppo del conflitto che la sinistra, a partire da Rifondazione comunista deve investire tutte le sue forze.

Infatti è proprio sulla mancanza di una sponda politica che possa rappresentare efficacemente, fino in fondo, gli interessi dei lavoratori che si basa la generalizzata mancanza di fiducia nei confronti dei partiti, compresi quelli di sinistra. C’è da dire che in questo ventennio la classe operaia li ha messi alla prova tutti, uno dopo l’altro: destra, centro e sinistra hanno portato avanti le stesse politiche. Non c’è da stupirsi che cresca l’antipolitica, che nella prossima tornata di elezioni amministrative aumenterà l’astensionismo e ci sarà un’affermazione di quelle forze, come il Movimento 5 stelle, che cavalcano questa disaffezione e che vengono viste come in opposizione al sistema attuale.
È patetico che a sinistra c’è chi voglia inseguire queste posizioni, proponendo “soggetti politici nuovi” che nascono già perdenti. In primo luogo perchè già esiste l’originale, in secondo luogo perché finiscono a parare sempre nello stesso punto: in un appoggio, certo in forme “nuove” e “originali” al vecchio centrosinistra e al Partito democratico.
È poi curioso che tutte queste iniziative che criticano i partiti novecenteschi propongano di formare soggetti politici, che elaborino un programma e definiscano liste di candidati per le elezioni. In poche parole… un partito (ma che non si pronunci questa locuzione terribile, per carità!).
Sia chiaro, non ci associamo nemmeno lontanamente a chi pensa nel Prc di combattere il grillismo legittimando questi partiti e questa politica. Siamo dell’opinione che i partiti oggi rappresentati in parlamento se ne debbano andare a casa, semplicemente per noi chi deve adempiere a questo compito è la forza organizzata del movimento operaio e non un comico in pensione o la magistratura.
Non ne possiamo più di contenitori che rimandano ad altre aggregazioni, che interloquiscono con federazioni, nella maggior parte dei casi non rappresentativi di nulla, e che servono solo a soffocare le espressioni più incisive del conflitto in un diluvio di parole proferite dall’ultimo intellettuale di grido.
La sinistra si può rigenerare solo sulla base della lotta di classe. Il vento di cambiamento che spira impetuoso in Europa ci parla proprio di questo, del fatto che le forze comuniste (o comunque collocate a sinistra della socialdemocrazia) che si sono poste all’opposizione dei governi dei rispettivi paesi oggi riescano ad intercettare parte della radicalizzazione crescente.
È questa la strada, è questa l’opportunità da afferrare per chi crede, come noi, che questo sistema capitalista si debba e si possa abbattere.
30 aprile 2012


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