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mercoledì 29 febbraio 2012

Quel «confronto» sul lavoro che non è mai partito

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In Italia i salari più bassi d’Europa, ma il governo punta ancora sulla riduzione delle tutele
Fosse stato discusso nel momento della pubblicazione (metà ottobre 2011), probabilmente la discussione sulle «priorità» del governo chiamato a sostituire Berlusconi avrebbe preso un’altra piega. Fatto sta che, in Italia, del rapporto Eurostat dedicato al Labour Market Statitics se ne discute soltanto oggi, in pieno «confronto» – si fa per dire – sulla «riforma del mercato del lavoro».
Si è così «scoperto» che i lavoratori italiani, di qualsiasi categoria, prendevano nel 2009 molto meno di tutti i colleghi della zona euro. Portogallo a parte. I greci, da allora, sono precipitati in classifica, ma l’esser stati comunque penultimi avrebbe dovuto far mettere al centro questa emergenza, non l’art. 18. Tanto più che persino in paesi dove il salario è più sostanzioso (e i prezzi al mercato inferiori) – come Francia e la rigorosissima Germania – avevano avuto in quattro anni una crescita nominale degli stipendi (10 e 6,2%) decisamente superiore alla nostra (3,3). In serata palazzo Chigi ha cercato di smentire, invocando una nota chiarificatrice dell’Istat. Ma sembra difficile che si possa parlare di «errori» da parte di Eurostat.
Oggi, invece, il ministro del lavoro – Elsa Fornero – usa questi dati per sostenere che bisogna «scardinare» il gap tra il pessimo salario netto in busta paga e l’alto costo del lavoro. Un mistero non glorioso: la tassazione sul lavoro dipendente è la più alta d’Europa. Solo che le misure proposte dal governo per «ripristinare l’equità» in un mercato del lavoro «imbarbarito», con anziani garantiti che guadagnano pochissimo e giovani precari che prendono molto di meno, sembrano pensate per spingere tutti ancora più in basso. L’abolizione delle residue tutele dei dipendenti, infatti, non può che giocare a favore di un drastico deprezzamento della forza-lavoro, vista l’enorme estensione della massa di disoccupati o «mal occupati».
Giovedì ci sarà il prossimo round tra il governo e le parti sociali, ma ancora nulla di «nero su bianco» è stato messo sul tavolo. Una condizione surreale che costringe tutti – anche la stampa – a correr dietro alle «indiscrezioni» invece che ai fatti. È in queste condizioni anche il sindacato, specie se incerto sulla posizione da tenere. Ieri il Direttivo nazionale della Cgil si èritrovato d’accordo nel definire come obiettivo della possibile «intesa» la riduzione della precarietà e l’estensione degli ammortizzatori sociali «con il criterio di universalità». Così come ha ribadito l’intangibilità dell’art. 18 come «deterrente», anche perché «è falso che si tratti di una particolarità del nostro paese rispetto all’Europa».
Per «coinvolgere pienamente l’insieme delle strutture» di un sindacato con quasi 6 milioni di iscritti, la Cgil ha convocato per il 5 marzo l’Assemblea straordinaria delle camere del lavoro.
Rispetto alle recenti riunioni, la discussione nel Direttivo è stata più distesa. Il governo non sembra al momento capace di offrire appigli per arrivare a un «accordo condiviso» con tutte le parti sociali. Come ha sintetizzato il segretario generale Susanna Camusso, all’uscita, «è nostro obiettivo e nostra intenzione fare un accordo per riformare seriamente» il mercato dellavoro, partendo dalle tre priorità: «ridurre la precarietà, allargare le tutele e mantenere i diritti». Chiedendo anche il ritiro del decreto sul lavoro interinale, incredibilmente varato dal governo al di fuori del «confronto» in corso.
Obiettivi che l’area «La Cgil che vogliamo» ha chiesto di considerare «indisponibli» al confronto col governo, e da appoggiare – per farsi capire bene – con una mobilitazione generale del sindacato. Che per ora non c’è.

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