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lunedì 17 ottobre 2011

Mezzo milione di indignati, ostaggio dei teppisti

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Sono arrivati a Roma in mezzo milione, almeno. La dispersione in tanti rivoli, dovuta all’esito del corteo, rivelava ancora di più la portata dei manifestanti. Non doveva essere una festa.
L’indignazione, di per sé, non rimanda a dinamiche ludiche ma alla crudezza della crisi e della polverizzazione sociale che produce. Ma le messe in scena di guerriglia, le colonne spettrali di fumo, le carcasse annerite di automobili, spesso non di lusso, restate impigliate al passaggio di pezzi di corteo lasciano una domanda inevasa: di chi è un corteo? Domanda che diventa ancora più urlata se sotto le colonne di fumo nero si sente la gente che strilla “fascisti, smettetela, via
dal corteo!” a giovanotti che si prendono molto sul serio mentre, avvolti dai cappucci d’ordinanza, danno fuoco a cassonetti di immondizia. Davvero è sufficiente etichettarli come infiltrati? Non doveva essere una festa ma doveva essere una presa di parola di massa tant’è che non s’era costruito un palco centrale per dare modo di attivare sei speak corner nella grande
S.Giovanni dove improvvisare assemblee all’aperto e, magari, mettere le tende - qui e là, lungo il percorso, per discutere di come rendere permanente una mobilitazione che altrimenti
sarebbe stata solo una passeggiata innocua tra i Fori o il grottesco carnevale del riot. Tra il nero del fumo sbuca un grappolo di palloncini colorati che regge una scritta “Il fine non giustifica i mezzi” e si “suicida” lontano, altissimo, nel faticoso tramonto romano.
 
Che fosse una babele di linguaggi s’era capito, già in fase di preparazione dall’articolazione del coordinamento nazionale - consapevole sia di non rappresentare l’intero corteo sia
di non potere e volere fare “sintesi” - e dalla pluralità di voci che si sono udite per le strade di Roma finché il rumore delle cariche non s’è fatto colonna sonora dell’indignazione. Ma
dentro la babele si riusciva a leggere che «finalmente - diceva Franco Russo - tutti conoscono il volto dei poteri forti: quello di Draghi e di Trichet, della Bce, oltre che del governo». Fino ad allora c’era chi marciava a ritmo di samba, chi urlava “vergogna”, chi “no alla violenza”, chi si acchittava il bavero nero come la felpa e il cappuccio, chi prometteva scioperi e chi rivendicava servizi e welfare per tutti e nessuna Tav. C’era, in strada, chi sogna “10, 100, 1000 Tahir”, chi lo ha scritto anche in arabo, chi portava la voce di territori martoriati o generazioni martoriate dalla macelleria sociale. C’erano precari di ogni tipo e di ogni età. «Ho 29 anni e sto in un call
center come tutti quelli della mia generazione», dice l’aquilano Paolo e, quando gli chiedo della sua città si limita a dire che sarebbe «la stessa intervista di due anni fa». «Noi siamo operatori sociali e cooperative - spiega Roberto Latella del Social pride romano - quel pezzo di lavoro precario che opera tra i soggetti più colpiti dalla crisi, il nostro settore è alle prese con tagli del 50%». «L’indignazione c’è perché il profitto viene prima delle persone - dice Simona Ricotti, No Coke di Civitavecchia - noi abbiamo deciso che non deleghiamo più il nostro futuro». Lo avrebbe detto anche da un camion di S.Giovanni, Simona, se solo avesse potuto e non fosse rimasta
incastrata tra il riot e la reazione delle polizie impazzite. Per la prima volta a
memoria di manifestante i blindati con gli idranti si sono messi a scorazzare a cinquanta all’ora per la storica piazza finale delle grandi manifestazioni. Solo il coraggio di un prete di
S.Giovanni, che apre i portoni ai fuggiaschi, riduce il rischio di un massacro “genovese”. Mentre i blocchi neri e quelli blu continuano a fronteggiarsi, il grosso del corteo riesce a svicolare verso il Circo Massimo, poi giù alla Piramide, poi verso il centro per tornare ai pullman. Gli studenti tornano verso la Sapienza da dove erano partiti in mattinata. Notizie di scaramucce si inseguono fino a sera, incerto il bilancio dei feriti mentre arrivano voci di rastrellamenti tra chi torna
a casa con l’aria losca. Tutto da scrivere quello politico.
 
«Sto marciando verso Piazza Re di Roma non so nemmeno perché - dice Raffaella Bolini dell’Arci che ha preso parte al comitato promotore - il punto è che era una giornata per riprendersi le piazze, potente e bellissima, ma è stata colpita da pratiche di segno opposto ma convergenti nel togliere spazio a mezzo milione di persone. Ciascuno avrebbe potuto esprimersi nei modi che riteneva opportuni, ma una minoranza ha negato questa possibilità a decine di migliaia di
manifestanti e anche la polizia ha perso la testa. Ma a casa non si torna». «Il punto è che mezzo milione di persone è sceso in piazza contro la Bce e il governo - dice anche Paolo Ferrero,
segretario del Prc - ma la manifestazione è stata vittima sacrificale di qualche incappucciato e di una gestione assurda dell’ordine pubblico». Anche i giuristi democratici parleranno in serata
di un corteo che «sembrava preso in ostaggio». «Servono questi gesti?» si domanda in piazza S.Giovanni, Paolo Beni presidente dell’Arci mentre i Cobas e il gruppo di contatto provano a stabilire un cordone per difendere il corteo dalle modalità da stadio.
«Non è che l’inizio - dice anche Alfio Nicotra, di Rifondazione comunista - ma dobbiamo capire insieme come possa davvero aprirsi lo spazio pubblico che tutta questa gente reclama».

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