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domenica 16 ottobre 2011

I draghi ribelli invadono Roma

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Se gli stati nazionali vengono oscurati da una crisi epocale, se i governi rinunciano alla loro autonomia passando il testimone a poteri transnazionali, se la politica si consegna alla finanza, se una cupola che nessuno ha eletto può decidere il destino di miliardi di persone, la sfida non consiste nel cambiare governo ma nel cambiare lo stato di cose presente.
Allora, tanto vale tenersi Berlusconi? Non lo pensa nessuno degli indignati italiani che oggi riempiranno le strade e le piazze di Roma per rivendicare un altro ordine da quello preteso da Bce, Fmi, Standard&Poor's e via finanziarizzando. Ma il bibliotecario senza biblioteca, l'attore senza teatro, il metalmeccanico senza fabbrica, lo studente senza scuola e l'insegnante senza cattedra, il terremotato senza casa, tutti diversi tra di loro e tutti unificati da una condizione di precarietà, sanno benissimo che, in Italia, la caduta del peggior governo della nostra storia repubblicana rappresenta soltanto il primo, fondamentale e inevitabile passo. E sa - lo sapeva anche prima dell'ennesimo voto prezzolato di ieri mattina in Parlamento, o di quello del 14 dicembre del 2010 - che la caduta di Berlusconi non può essere delegata ai deputati, ai senatori, ai partiti. Solo un movimento forte, determinato, portatore di una proposta e di una visione alternative può liberarci dell'incubo che ci toglie il sonno. Quel movimento che ha capito il senso e il fine della lettera della Bce al governo italiano non ci sta, e si trasferisce in via Nazionale. Quel movimento che ha capito l'insidia dell'articolo 8 della manovra economica: non serve essere un lavoratore dipendente per comprendere che colpendo chi ha qualcosa si cancellano speranza e futuro di chi non ha nulla - lavoro, reddito, diritti, cittadinanza.
Le centinaia di migliaia di uomini e donne che in Italia, come a milioni in 82 paesi e quasi 1000 città del globo, grideranno la loro indignazione, sanno che la caduta di Berlusconi è solo la prima vetta da scalare perché guardano fuori dai loro luoghi di lavoro e non lavoro. E vedono tanti e tante come loro, con la stessa rabbia, la stessa rivendicazione di diritti cancellati o negati in un'Europa frastagliata in differenti governi, ma unita dalle ricette liberiste alla crisi provocata dal liberismo. L'ossessione del debito sta accecando governi, politica, classi dirigenti di destra e di sinistra o quasi. Dire che il movimento degli indignati rappresenta l'antipolitica vuol dire non aver capito, o nascondersi, la natura di quella che chiamiamo politica ma è solo autoreferenzialità, privilegio, delega, complicità con i poteri forti, subalternità al pensiero unico, adesione non solo alle ricette di Draghi e Trichet ma anche alla loro pretesa di imporre il modo con cui azzerare il debito, decidendo chi affondare e chi salvare. Una ricetta intesa a salvare solo ricchi, ceti e caste da ingrassare con i diritti, i salari, il lavoro, la dignità strappati alla maggioranza della popolazione.
Tutto il mondo è indignato, ma indignarsi non basta. In tanti lo sanno, già senza che qualcuno glie lo spieghi. In tanti e tante hanno capito che per battere il dragone bisogna rifiutarsi di partecipare alla guerra tra poveri finalizzata a dividere tra loro le vittime della dittatura della finanza per sbrarle meglio. Parlare oggi di garantiti e non garantiti è un gigantesco imbroglio. Credere che togliendo qualcosa a chi «ha troppo» si aiuti chi non ha, è, se va bene, un'ingenuità. La politica dei due tempi finisce sempre al termine del primo. Chi ha il contratto regolare, chi è precario, chi non ha alcun contratto, chi ha un lavoro nero e chi neanche quello, chi è nativo e chi è migrante: tutta carne da macello per sfamare il drago. Riunificare le lotte, nelle fabbriche e negli uffici, nelle scuole e nei call center, in teatro e nei laboratori di ricerca, è la strada imboccata in Italia a partire dalla rivolta degli operai di Pomigliano, diventati un modello di dignità per tutte le persone e i soggetti non fagocitati o pacificati dal berlusconismo. Da questa esperienza, da questa unità sgorga un primo embrione di alternativa sociale, culturale, ambientale, politica.
Neanche per noi - a Genova si diceva «voi 8 noi 6 miliardi», oggi a New York come ad Atene, «siamo il 99%» - è praticabile la politica dei due tempi: oggi l'indignazione, domani l'alternativa; prima abbattiamo Berlusconi poi pensiamo all'ordine mondiale. Guarda il dito e non la luna chi si turba per la mancanza di educazione di questo movimento frastagliato, persino un po' confuso, certamente generoso, alla ricerca non di cariche e di posti al sole ma di una speranza di futuro, costruito insieme abbattendo steccati e scavalcando recinti. Guarderebbe il dito e non la luna anche chi volesse tentare di mettergli addosso cappelli e targhette, o scambiando la costruzione di una storia comune per un campo di battaglia in cui scaricare le frustrazioni.
I capitali, finanziarizzati, si sono globalizzati, quel proletariato che un tempo non aveva nazione non può pensare di cavarsela, ognuno rinchiuso nel suo guscio, nella sua lotta, nella difesa del «suo» bene comune o della sua valle. L'operaio dei cantieri di Monfalcone non riuscirà a salvarsi accettando che venga sottratto il lavoro al suo compagno di Genova, quello di Termini prendendosela con le tute blu di Tychy. In Italia gli indignati, anche se non si chiamavano così, hanno una storia lunga e articolata. Nelle aseemblee di questi mesi studenti e precari hanno capito che il contratto dei meccanici li riguarda e gli operai della Fiom si battono per il reddito di cittadinanza. E gli attivisti dei beni comuni, i pacifisti, gli ambientalisti hanno incrociato studenti e lavoratori, pensionati e no Tav. Un' alternativa è possibile. Nelle strade di Roma oggi sfileranno embrioni di politica.

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